Stretching : argomento controverso con qualche consiglio pratico

di Salvatore Buzzelli

Premessa

Faccio volentieri  su questo Blog, un intervento tecnico sullo Stretching, per offrire spunti di riflessione oltre che affermare concetti metodologici purtroppo ancora sconosciuti ai più, vista l’insistenza con cui molti allenatori continuano a propinare agli atleti cospicue sedute di stretching finalizzate (a loro dire) alle più svariate forme di allenamento o prevenzione.  Quasi giornalmente, appaiono articoli che trattano l’argomento Stretching, e personalmente per introdurre l’argomento mi  ricollego ad un articolo scritto da Sara Ficocelli “Sport con o senza stretching? Cambia poco, dice uno studio.” apparso tempo fa  sul giornale “La Repubblica” per offrire quindi agli utenti del Blog un contributo scientifico e spiegare il perché delle conclusioni dello studio riferito nell’articolo citato, ed aggiungere qualcos’altro del mio pensiero da tecnico.

Queste le parti salienti dell’articolo:

“…. E’ davvero fondamentale stirare i muscoli, prima, dopo e – secondo gli integerrimi – anche durante la corsa? No, almeno secondo l’ultima ricerca internazionale. Uno “Stretching Study” che ha coinvolto 2388 volontari per verificare l’efficacia degli esercizi di risaldamento. Quelli, per intenderci, che allungano i muscoli e ci proteggono dai fastidi dell’acido lattico. Norvegia, Australia e Usa i Paesi che hanno partecipato all’indagine; filo conduttore la telematicità. I partecipanti hanno seguito le indicazioni degli esperti e documentato i risultati compilando un format online. Ad alcuni è stato chiesto di fare sport e stretching, ad altri di saltare quest’ultima fase. Gli esiti hanno evidenziato, tra un gruppo e l’altro, una differenza del livello di “indolenzimento” post-ginnico di poco conto, pari al 5%. Quasi uguale, insomma, la situazione fisica di chi aveva fatto o meno allungamento muscolare. In Norvegia la ricerca è stata coordinata dal dottor Andy Oxman, del Norwegian Knowledge Centre for Health Services, in tandem con i colleghi australiani dell’Università di Sidney. Questa sinergia è stata utile, dato che i norvegesi usano fare stretching dopo, mentre gli australiani prima di mettersi in moto. Lo studio è durato in tutto 13 settimane e in Norvegia e Australia ha preso in esame corridori, ciclisti, nuotatori e calciatori, chiedendo a tutti di allenarsi almeno una volta a settimana. Ad alcuni è stato chiesto di fare stretching per 10 minuti alla volta, ad altri di evitarlo. In entrambi i casi, i gruppi sono stati selezionati a caso e, tra norvegesi e australiani, sono state esaminate circa 1700 persone.

La branca americana della ricerca è stata sponsorizzata dallo Usa Track & Field e promossa dall’ex corridore Alan Roth e dal suo ortopedico specialista Daniel Pereles, del Montgomery Orthopedics di Kensington, nel Maryland. Purtroppo, dei 1905 corridori candidati all’esperimento solo 795 hanno compilato il format fino in fondo. Al di là della passione dei cittadini Usa per lo jogging, il risultato è stato uniforme dagli Stati Uniti alla Norvegia: poca differenza tra chi aveva fatto stretching e chi no, pochi quelli che accusavano dolore da accumulo di acido lattico pur non avendo stirato un muscolo….”

Fin qui le parole di Sara Ficocelli.

 

Non è la prima volta che accade nel mondo della metodologia dell’allenamento che venga messa in discussione una pratica allenante consolidata da anni di assidua applicazione.

Già da tempo se ne discute, ed a quasi 40 anni dalla sua introduzione nel mondo dello sport dove ha riscosso indubbio successo e fatto registrare un esorbitante numero di adepti, lo stretching viene sempre più spesso  ridimensionato, suggerendo di passarlo da ruolo primario nella seduta di allenamento, a ruolo accessorio, con qualche attenzione e cautela in più per l’uso che se ne vuol fare.

Da quando esiste l’allenamento organizzato razionalmente, è prassi “allungare la muscolatura” con esercizi specifici, al fine di migliorare la flessibilità e prevenire infortuni; infatti, questo genere di esercitazione fisica è stata inserita ed utilizzata in tutti i piani di allenamento per tutti i tipi di atleti.

Le prime esercitazioni di allungamento muscolare, caratterizzate da un’esecuzione dinamica e spesso rimbalzata, però, entravano manifestamente in contrasto con alcuni meccanismi fisiologici propri del sistema muscolare, al punto che vari autori ne hanno indicato la potenziale pericolosità, spingendoli a ricercare altri modi per ottenere migliori effetti allenanti: primo fra tutti fu Bob Anderson che introdusse intorno alla fine degli anni settanta lo Stretching.

Lo Stretching è una metodica di allungamento che si esegue stando fermi in posizioni particolari e prevede l’elongazione di ogni singolo distretto muscolare secondo vari metodi di interpretazione che verranno descritti in seguito.

Da quando fu codificato e diffuso nel mondo dell’attività motoria, suffragato anche dalle ricerche di Heyward, e Sölveborn, lo Stretching è divenuta la metodica di allenamento più utilizzata nell’ambito delle varie discipline sportive.

Nel corso degli ultimi anni comunque, nonostante l’indubbio successo e diffusione capillare conquistati da questa metodica, si è andato affermando un pensiero scientifico in controtendenza che ne ha messo in discussione la sua efficacia e la sua effettiva utilità arrivando ad argomentare e documentare che il solo effetto realmente ottenibile dallo stretching sia quello di abituare la muscolatura alla sopportazione del dolore muscolare in caso di elongazione (stretching tolerance), mettendo in guardia anche da alcune sue importanti controindicazioni.

Comunque per poter comprendere il senso metodologico dello Stretching e delle affermazioni contrarie, bisogna partire delle basi anatomo-fisiologiche dell’apparato muscolo-tendineo e capirne l’organizzazione ultrastrutturale allo scopo di chiarire come lo Stretching possa realmente influire con una sua applicazione costante e razionale e, cosa sia lecito aspettarsi in termini di risultati finali dall’uso di questa pratica.

 

Basi anatomo-fisiologiche del sistema muscolo-tendine.

Va premesso, che dal livello cellulare a quello dell’attivazione, tutti i fenomeni relativi al muscolo non sono ancora ben conosciuti, perciò nel campo della ricerca biologica sul sistema muscolare, ci si avvale di modelli di funzionamento.

Il più accredidato, ed ultimo in ordine di tempo, è quello che prevede l’unità funzionale del muscolo detta sarcomero, all’interno del quale sono contenuti i due elementi specifici e protagonisti della contrazione: la miosina e l’ actina

La miosina dispone di propaggini munite di elementi elastici, che si diramano esternamente alla sua struttura centrale per potersi agganciare alla actina e dar luogo alla contrazione muscolare.

Quando il muscolo è in stato di riposo, le propaggini della miosina non sono ancorate all’ actina, per la presenza della troponina C nei siti specifici di ancoraggio della miosina sull’actina, impedendo così la formazione dei cosiddetti ponti acto-miosinici, chiamati anche cross-bridge, che in caso di allungamento attivo (per esempio: l’attivazione eccentrica prima di un salto verticale) del sarcomero fungono da accumulatori di energia elastica.

Secondo il primo modello biologico ipotizzato da Huxley (1957), si pensava che l’actina fosse connessa alla linea Z del sarcomero, e che la miosina fosse libera da vincoli, successivamente grazie a studi effettuati con rescissione proteica con antigeni, da Maruyama (1976), che prevedevano la distruzione dell’actina, si è potuto constatare, che anche la miosina, risulta ancorata alle linee Z per mezzo di un’altra proteina elastica e di alto peso molecolare che giustificherebbe la leggera tensione contenuta nel muscolo, quando viene disteso passivamente (resting tension): la titina.

Ogni molecola di titina si estende dalla linea Z, ossia la parte più esterna del sarcomero, sino alla parte centrale del sarcomero stesso. La porzione di titina che si trova intrecciata alla miosina, cioè nell’area scura osservabile all’interno del sarcomero si comporta come fosse un tutt’uno rigido col filamento di miosina, mentre la parte della molecola di titina ancorata alla linea Z, presenta un comportamento di tipo elastico.

Oltre alla titina, nel sarcomero sono presenti la nebulina, una proteina ad alto peso molecolare implicata nella regolazione della lunghezza dei miofilamenti di actina e la desmina un’altra proteina il cui compito sarebbe quello di mantenere i sarcomeri in parallelo.

Durante l’allungamento passivo della fibra muscolare, come avviene nello stretching, nel sarcomero si avrà una sequenza di fasi di cui la prima è a carico del complesso acto-miosinico che si lascerebbe allungare con relativa facilità, ed una seconda fase in cui si avrebbe l’elongazione della porzione dei miofilamenti di titina connessi alla linea Z che invece opporrebbero una relativa resistenza; nonostante ciò, considerando anche i cross-bridge residui presenti anche in condizioni di rilassamento muscolare, il sarcomero può essere allungato non oltre una volta e mezza la sua lunghezza di riposo, dimostrando buona disponibilità all’allungamento del muscolo globale. Ma il muscolo, anche nelle sue forme più elastiche non raggiunge tali estensibilità, infatti l’organizzazione architettonica del tessuto connettivo circostante le miofibre esercita un ruolo fortemente limitante l’allungamento.

 

Organizzazione neuromotoria.

Il muscolo striato possiede due tipi diversi di recettori che ne assicurano la sensibilità riflessogena : i Fusi Neuromuscolari e i Corpuscoli Muscolo-Tendinei del Golgi; entrambi sono ricchi di fibre sensitive, sono attivati dallo stiramento del muscolo e mediano il riflesso miotatico, cioè stimolano la contrazione del muscolo, quando questo viene stirato

I Fusi Neuromuscolari (FNM) sono disposti in parallelo alle fibre muscolari e siti nello spessore muscolare, sono composti da alcune fibre muscolari (fibre intrafusali) rivestite da una guaina connettivale e sono responsabili del “riflesso da stiramento”, una risposta muscolare di tipo contrattile, nei confronti di un repentino aumento della lunghezza del muscolo: lo scopo di questa risposta è aumentare il tono del muscolo stirato per salvaguardarne la struttura evitando lacerazioni del tessuto. I Corpuscoli Muscolo-Tendinei del Golgi GTO, (dal termine inglese: Golgi Tendons Organs) sono situati in serie al muscolo e si trovano nello spessore tendineo o a livello della giunzione muscolo-tendinea e presiedono al riflesso miotatico inverso o “inibizione autogena”, che porta alla inibizione del muscolo stirato, quindi al suo rilassamento, e alla contrazione del muscolo antagonista con una azione protettrice nei confronti del complesso muscolo-tendineo che si trova ad essere allungato in maniera anomala. Occorre sottolineare che i GTO hanno una soglia di attivazione più elevata rispetto ai FNM, risulterebbero essere maggiormente sensibili alle tensioni generate dall’attivazione muscolare di tipo concentrico che alle variazioni di lunghezza del muscolo, e per attivarli con l’allungamento passivo necessitano di uno stretching particolarmente intenso.

 

Lo Stretching e le sue tecniche esecutive.

Sulle anzidette considerazioni fisiologiche, lo stretching poggia le sue basi metodologiche le cui modalità esecutive possono essere riassunte in:

 

Strechting statico (raggiungimento ed il mantenimento da parte dell’atleta, per un certo periodo di tempo (di solito 30 secondi), della massima posizione di allungamento possibile di allungamento di un determinato gruppo muscolare )

Stretching dinamico e stretching balistico (simile alle metodiche di allungamento muscolare antecedenti lo sterching di Anderson, potenzialmente pericoloso, ma maggiormente specifico rispetto l’esecuzione dei gesti tecnici propri della disciplina praticata: si consiglia di eseguirlo però dopo un congruo riscaldamanto)

Strechting passivo (l’atleta deve essere completamente rilassato e non partecipare attivamente al raggiungimento dei diversi gradi dell’ampiezza articolare (ROM : range of motion), che vengono fatti raggiungere con l’applicazione di forze esterne create o dall’intervento manuale di un fisioterapista o di un compagno, oppure meccanicamente, con macchine specifiche.)

Strechting attivo (è basato sul raggiungimento ed il mantenimento della massima posizione di allungamento, provocata unicamente da una contrazione muscolare attiva.)

Strechting isometrico (questo tipo di allungamento si compone di tre parti distinte:

  1. Si parte assumendo la posizione di stretching passivo desiderata.
  2. Si effettua una contrazione isometrica contro una resistenza esterna inamovibile (generalmente un compagno, oppure il pavimento od una parete) per un periodo di tempo normalmente compreso tra i 7 ed i 15 secondi.
  3. Infine si allunga il muscolo contratto in precedenza per un ulteriore periodo della durata di perlomeno 20’’

Strechting PNF (Facilitazione Propriocettiva Neuromuscolare ) di cui le tecniche più utilizzate sono:

  • a) La tecnica di contrazione rilassamento (CR)
  • b)La tecnica contrazione-rilassamento-contrazione (CRC)
  • c)La tecnica tenuta-rilassamento-oscillazione (HRS: hold-relax-swing)

Le finalità teoriche comuni delle suddette tecniche dovrebbero essere quelle di:

  • aumentare il raggio di movimento articolare (ROM) attivo e passivo e l’estensibilità dei gruppi muscolari allenati grazie alla riduzione della loro rigidità
  • elevare il punto d’innesco del riflesso da stiramento, che consente di mantenere rilassato il muscolo per livelli di allungamento superiori a quelli precedenti l’utilizzo sistematico dello stretching,
  • possibilità (secondo alcuni autori) di favorire l’aumento del numero dei sarcomeri in serie che compongono le fibre muscolari, che sarebbero i responsabili del possibile aumento della lunghezza del muscolo sottosposto ad un programma di stretching reiterato nel tempo.
  • stimolazione della produzione di sostanze (come l’acido jaluronico), che permetterebbero una sorta di “lubrificazione” delle fibre del tessuto connettivale

Per questa serie di motivi lo stretching si è anche affermato come miglior forma di prevenzione nei confronti dei insulti muscolo-tendinei oltre ad essere considerato una buona esercitazione di riscaldamento e di pre-gara. Recentemente però, numerosi Autori, a seguito di studi specifici e molto approfonditi, effettuati su un gran numero di soggetti (come lo studio presentato da “La Repubblica”), non hanno rilevato alcun beneficio derivante da una pratica assidua e regolare dello stretching , soprattutto per quanto riguarda la prevenzione dei danni all’unità muscolo-tendinea (UMT), in cui è stato verificato che anche il solo atto motorio tendente all’elongazione muscolare, in un muscolo attivo durante la fase di attivazione eccentrica sia in un muscolo passivo durante la fase di allungamento, possa di per sè causare un traumatismo locale.

Gli studi recenti spiegano che la mancanza di correlazione tra capacità di allungamento del muscolo e diminuzione degli incidenti muscolari siano da attribuire alla pratica dello stretching che procurerebbe l’innesco di una sorta di effetto antalgico (stretch-tolerance) nei confronti dell’allungamento stesso: la pratica dello stretching indurrebbe quindi, solo una diminuzione della sensazione dolorosa connessa all’allungamento infatti l’aumento del livello della soglia dei nocirecettori (recettori specifici delle sensazioni nocive che conducono al dolore), permetterebbe all’atleta di sopportare allungamenti muscolari di maggiore entità, situazione questa che porterebbe ad aumentare paradossalmente anche il rischio di traumatismi muscolo-tendinei.

Sembrerebbe infatti che il vero ed unico ruolo di antidoto contro il rischio di traumi sia da assegnare al calore interno al muscolo.

Le stesse proprietà elastiche del muscolo perdono di efficienza anche a seguito di esercitazioni intensive di stretching, diminuendo così l’efficacia di prestazione nelle espressioni motorie esplosive e di velocità (questa ipotesi è stata verificata e avvalorata anche da alcune sperimentazioni condotte su miei allievi che a seguito di 20 minuti di stretching intenso per i distretti muscolari degli arti inferiori, hanno visto diminuire la loro capacità di salto verticale, misurata su pedana a conduttanza, di circa il 8%-10%).

Un’altra constatazione sperimentale riguarda il riscaldamento: essendo le esercitazioni di stretching fondamentalmente basate su attivazioni eccentriche mantenute per alcune decine di secondi, di fatto nei periodi di tempo in cui si resta in posizione statica si impedisce una corretta e libera circolazione sanguinea nel tessuto muscolare, inducendo così una sorta di leggera ipossia locale: questa situazione facilita l’instaurarsi di lesioni al muscolo stesso ed alla giunzione muscolo-tendinea proprio per la scarsa vascolarizzazione. Tra l’altro la resistenza indotta alla circolazione sanguinea non consente di elevare la temperatura corporea distrettuale come il riscaldamento dovrebbe fare, per cui venendo a mancare la giusta temperatura interna (circa 39 gradi centigradi) che consente alla muscolatura di esprimere al meglio le sue caratteristiche, attraverso una riduzione della viscosità dei tessuti e l’ottimizzazione delle proprietà elastiche, si deve razionalmente sconsigliare l’utilizzo dello stretching come metodica esclusiva di riscaldamento, ed anche e come esercitazione da inserire all’inizio del riscaldamento stesso, come invece spesso si vede fare.

Insomma, alla luce di tutte le considerazioni e dei dati fin qui esposti, lo stretching in fondo non è la panacea a tutti i mali muscolari dell’atleta anche perché come è stato dimostrato, la sua pratica non è poi così priva di rischi, ciò non vuol significare demonizzarne e sconsigliarne l’uso, ma vuol essere l’invito a mediare metodologicamente con altri tipi di pratiche allenanti per dar vita a programmi specifici anche rivolti al miglioramento della flessibilità e a proporre soluzioni tecniche mirate fatte di dosaggi, tempi e momenti applicativi, per ottenere risultati più significativi e consoni alle recenti acquisizioni scientifiche.

Consigli pratici per gli atleti.

Lo stretching non è consigliato come metodica di riscaldamento perché è in antitesi con la necessità muscolare di elevare la propria temperatura interna a causa delle resistenze alla circolazione sanguinea indotte dall’attivazione eccentrica passiva, propria delle sue tecniche applicative.

Si sottolinea l’inserimento delle esercitazioni di stretching, solo per alcuni secondi (non più di 7-8”) per distretto muscolare, comunque dopo aver fatto elevare la temperatura corporea a seguito di una corsetta o esercitazione similare.

Limitare la dose e l’intensità dello stretching durante il riscaldamento pre-gara per evitare un possibile scadimento della prestazione.

Mai eseguire esercitazioni di stretching dopo una seduta di muscolazione, per non aumentare la possibilità di traumi dell’ UMT già sufficientemente “stressata” dall’uso di sovraccarichi.

Dedicare una seduta settimanale allo stretching (30 minuti in totale) durante la/le seduta/e di scarico.

Integrare lo stretching con esercitazioni di slancio o mobilità attiva, ricalcando il dinamismo motorio tipico della esecuzione pratica delle tecniche sportive.

Alla luce di quanto esposto non è razionale pensare che l’utilizzo, anche se costante, dello stretching sia sufficiente per prevenire in modo sistematico gli incidenti muscolo-tendinei, ricordando che il fattore principale di limitazione ai traumatismi è determinato dal raggiungimento di un buono stato di riscaldamento muscolare pre-allenamento e/o pre-gara .

0Shares
Taggato , , , , , . Aggiungi ai preferiti : permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *