3 domande a … Rodolfo Lisi

Professionista con esperienza pluriennale nel settore dell’insegnamento, Rodolfo Lisi si è perfezionato in Posturologia e in Cultura Sportiva. Lisi, che si distingue per l’ampio ventaglio di competenze multidisciplinari, è autore di 14 libri sullo sport (di cui 13 sul tennis) ed è considerato il massimo esperto italiano nell’ampia tipologia di lesioni che affliggono il tennista. Il suo  “La scoliosi nel tennis, tutta la verità” è l’unico testo esistente al mondo su tale “spinoso” argomento.

Da anni, ormai, si disquisisce sul ruolo del tennis, in quanto sport “asimmetrico”, nel determinismo e/o nel peggioramento di una scoliosi. Qual è lo “stato dell’arte”, oggi?

Dal momento che non esistono studi scientifici rigorosi (letteratura scientifica docet), non si può escludere a priori una influenza diretta dello sport delle racchette, soprattutto se tale attività sportiva viene eseguita per molte ore al giorno come nel caso di giovani tennisti agonisti. Il tutto, nonostante molti addetti ai lavori continuino a tranquillizzare le famiglie su questo aspetto. Lo stesso studio italiano di ISICO (2016), sebbene pubblicato su una rivista indicizzata (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26920135/), è pieno di criticità metodologiche (e ho già avuto modo di dimostrarlo nel mio libro “La scoliosi nel tennis: tutta la verità”- Il Trifoglio Bianco). Lo studio in oggetto è stato preso come riferimento da molti mass media che hanno utilizzato titoloni a caratteri cubitali per “discolpare” il tennis. Ho sempre amato il tennis. E l’ho anche praticato seppure a livello amatoriale. Ma è necessario dire sempre la verità, anche se può risultare “antipatica”. Per la salute dei nostri piccoli allievi. E quindi, per quanto personalmente orientato a escludere un significativo ruolo etiopatogenetico del tennis nel determinismo della scoliosi, ritengo tuttavia che, oggi come oggi, data la carenza di studi cui possa essere attribuita una valenza scientifica risolutiva, sia quanto meno prematuro archiviare il problema. Posso tuttavia fornire alcune indicazioni basate sulla mia esperienza di ricercatore. In breve: una grave scoliosi strutturata determina una serie di evidenti limitazioni anatomofunzionali che sconsigliano la pratica tennistica. E, a mio avviso, bisogna fare attenzione anche in una scoliosi lieve, comparsa in età adolescenziale. Nel caso di un’attitudine scoliotica (una semplice deviazione della colonna senza rotazione delle vertebre), invece, nullaosta alla pratica del tennis. È della massima importanza infatti continuare a praticare un’attività sportiva o comunque fisicomotoria, dato che siamo di fronte a un quadro patologico transitorio e decisamente non preoccupante.

Nei suoi libri, Lei ha affrontato praticamente tutte le patologie che affliggono il tennista. I nostri lettori, tuttavia, sarebbero molto interessati ad avere maggiori informazioni sull’epicondilite, nota anche come “gomito del tennista”. Cosa può dirci al riguardo?

L’epicondilite, o “gomito del tennista”, interessa non solo sportivi ma anche lavoratori a causa dell’iperuso ed insorge tipicamente in un arco di età che va dai 34 ai 74 anni. Trattasi, inoltre, di una patologia dal rilevante impatto sociale: l’INAIL ne riconosce gli effetti invalidanti quando causata da lavorazioni svolte in modo non occasionale, che comportano movimenti ripetuti, mantenimento di posture incongrue e impegno di forza (malattie da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori). Nella popolazione generale, l’epicondilite colpisce in eguale misura uomini e donne sebbene alcuni studi abbiano riportato una maggiore incidenza per il sesso femminile. È da porre in evidenza, nel tennis, alcune considerazioni. Nel servizio, ad esempio, l’eccessiva pronazione dell’avambraccio e l’eccessiva flessione del polso potrebbero contribuire a scatenare tendinopatie del gomito. Infatti, sebbene alcune ricerche abbiano individuato nella flessione del polso la componente più importante per imprimere maggiore velocità alla racchetta, se si vuole evitare la tristemente nota e comune epicondilite il movimento non deve essere esagerato o accentuato oltre misura. La reiterazione di colpi effettuati in direzione di flessione ed estensione (comuni alla maggior parte degli sport “overhead”), inducono l’articolazione del gomito ad una particolare funzione  di “assorbimento” continuo delle forze.

Nel rovescio, le specifiche di un gesto tecnico corretto contemplano una tempistica esecutiva (timing) ottimale, un adeguato trasferimento della massa corporea sulla palla e il braccio dominante disteso sia all’inizio del movimento a colpire sia all’impatto. Bernhang e colleghi, così come Elliott, consigliano infatti di rifuggire dalla impropria modalità di conduzione del rovescio nota sotto la dizione “leading elbow backhand technique”. I novizi, in altre parole, eseguono un rovescio in “ritardo” con il gomito che anticipa il braccio e “punta” verso la rete. Si verrebbe a configurare un errato meccanismo d’azione che annovera, tra gli altri, anche una scorretta cinematica del polso. È infatti caratteristico, nei tennisti di basso livello, l’atteggiamento dell’arto superiore dominante (polso flesso e braccio-racchetta distante dal corpo). La ripetizioni di movimenti errati e stereotipati è foriera di possibili lesioni a carico di tendini ed articolazioni. Nel rovescio a due mani, entrambi gli arti superiori governano la racchetta, sia pure con mansioni che differiscono a seconda della modalità esecutiva prescelta: l’uno di supporto/sostegno, l’altro di spinta e di accelerazione. La più recente manualistica tecnico-sportiva ne parla soprattutto in relazione a due specifiche tipologie di rovescio bimane (ad azione multipla e ad azione unita delle braccia). In linea generale, e prendendo come riferimento un destrorso, la presa sulla parte inferiore del manico è assicurata dalla mano destra. Che, in deviazione ulnare, crea un irrigidimento del complesso sistema avambraccio-polso-mano dando stabilità all’arto superiore in toto ed evitando movimenti inconsulti e potenzialmente dannosi sulle entesi. L’epicondilite si manifesta raramente in tennisti con rovescio a due mani in quanto l’arto superiore non dominante (il sinistro per i destrorsi), che agisce prevalentemente in opposizione, assorbe energia in modo significativo mentre il controlaterale, dominante, agisce longitudinalmente alla forza d’impatto. Nel dritto, è ragionevole ipotizzare un carico maggiore a livello del gomito in quel tennista che, in posizione aperta, “mulina” il diritto con il braccio dominante esteso: le sollecitazioni articolari aumentano perché aumenta la distanza tra il punto di impatto della palla e il fulcro articolare (spalla). Nel momento in cui, al contrario, il sistema “arto-racchetta “, a gomito flesso, si avvicina al corpo, si modifica la modalità di trasmissione dei carichi a livello muscolo-tendineo e delle superfici articolari. Di conseguenza, gli sforzi meccanici sulle articolazioni coinvolte si riducono considerevolmente.

Si parla spesso delle superfici di gioco come fattore scatenante di alcune patologie degli arti inferiori nel tennista. A suo avviso, qual è il manto di gioco più sicuro in termini di prevenzione degli infortuni?

Nel tennis, le patologie degli arti inferiori sono ascrivibili soprattutto a problemi di sovraccarico legati all’intensità e al numero di ripetizioni di gesti tecnici altamente dinamici. Un ruolo fondamentale, sia per la prestazione sia per l’insorgere di patologie o il verificarsi di infortuni, è svolto dalle componenti caratterizzanti il gioco. Lo sviluppo di superfici di gioco innovative, sulla carta maggiormente performanti, non sempre garantiscono gli esiti previsti per la qualità delle prestazioni e per l’integrità dei praticanti. Se ai massimi livelli, spesso, le problematiche si manifestano a causa dell’intensità e della frequenza delle prestazioni, a livello amatoriale una delle cause principali degli insuccessi dovuti a peculiarità tecnologiche (tipicamente la racchetta o la calzatura) risiede, soprattutto in fase di acquisto, nella mancata consapevolezza di quanto l’attrezzo e la superficie mediano il trasferimento dei carichi tra uomo e ambiente circostante. Ogni modifica di queste componenti comporta la ridistribuzione delle sollecitazioni meccaniche sul sistema biologico, con effetti difficili da prevedere senza le necessarie conoscenze delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Tanto premesso, gli studi epidemiologici indicano forti correlazioni tra numero di eventi e tipologia di terreno. I giocatori abituati a superfici che permettono lo scivolamento controllato (terra rossa) – dove, a parità di impulso, il maggior tempo di frenata implica il raggiungimento di forze massime più basse – sono colpiti da un numero significativamente inferiore di situazioni dolorose o di infortuni rispetto a coloro i quali si cimentano su superfici “dure”, come il cemento. Questi riscontri hanno giustificazioni di tipo biomeccanico in quanto, ad esempio, la reazione al terreno, in alcuni colpi, è tre volte superiore su queste superfici rispetto a quella sulla comune terra rossa, così come risulta più elevata l’attività elettromiografica dei muscoli peronei. Tra l’altro, i manti sintetici, a causa dell’elevato coefficiente di attrito (GRIP), amplificano le criticità imposte dalle fasi di partenza, arresto e cambio di direzione. Prendendo come esempio la stessa frenata, laddove il tennista arrivi sulla palla con una velocità più elevata, si renderà necessario azzerare una quantità di moto maggiore (e maggiori risulteranno – a parità di superficie – i carichi agenti sul sistema muscolo-scheletrico-tendineo). Inoltre, l’aumento di grip permette di ridurre la quantità di moto in un tempo minore dato che

Q (quantità di moto) = mv       e    ∆Q = m∆v   (1)

Ricordando che                    F = ma          ossia       F = m ∆V/ ∆t   (2)

Ricavando  da (2)  ∆V =  F ∆t / m

Con le dovute sostituzioni di (2) in (1), si ottiene

∆Q = F∆t

 ossia per ridurre la quantità di moto si deve applicare un impulso equivalente. Dato che il grip permette un movimento di frenata più rapido, lo stesso impulso è ottenibile applicando una forza maggiore con il conseguente incremento dei carichi sul sistema biologico.

Inoltre, i risultati di una ricerca condotta su tennisti professionisti di sesso maschile ha mostrato come i campi in cemento siano caratterizzati da un’incidenza decisamente superiore di infortuni rispetto ai campi in terra rossa (0,37 trattamenti medici per partita contro 0,20).

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