di Massimo D’adamo
Vi ricordate quando il sole illuminava solo yhankee e canguri armati di racchetta? Altri tempi perché gli astri, si sa, sono volubili e già da tempo sembrano beatificare la terra che del tennis fu la culla. Insomma l’effetto fab four si fa sentire e il vecchio mondo sembra in preda a un profondo fermento racchettaro. E su uno sfondo fumo di Londra gessato di bianco, la Laver Cup celebra al Palaexpo di Ginevra una leadership tennistica ormai a suo agio nell’ antico alveo. E anche se il contenuto agonistico non va oltre quello della grande esibizione, l’evento riflette fedelmente quanto avviene sul circuito ‘pro’, e riafferma una tradizione storica innegabile. Sarebbe lunga risalire al Jeu de Pume francese del XII secolo o a quel vizioso di Enrico VIII che già nel 1530, oltre a cambiare mogli, praticava con sollazzo lo sport della racchetta. Cinque secoli separano le vicende nostrane dal fondatore della chiesa Anglicana e anche se nel frattempo ha cambiato cento volte pelle, il tennis continua a condividere con l’Europa origini lontane e profonde affinità elettive.
E a testimoniare l’abbondanza, la compagine europea avrebbe potuto schierare almeno altri due squadroni alternativi a Federer & C pescando tra i primi venti mentre il Resto del Mondo ha dovuto grattare il barile per metterne in piedi almeno una. Risultato: terza edizione, terza vittoria per un continente che ha dato i natali a Dante Alighieri, Leonardo da Vinci e a Voltaire, tanto per non disturbare gli altri. La manifestazione è una bella metafora della tanto bistrattata Europa politica che non vuol saperne di arrivare: giocatori rivali sul circuito ma pronti a fare muro verso quel che rimane del pianeta tennis. Ma a Ginevra va è andato in onda anche un motivo di riunificazione planetaria: rendere onore a Rod Laver, campione infinito, beatificato dagli astri per i due poker in bacheca e i modi gentili da persona per bene.
Una celebrazione che fa di me un privilegiato. I casi della vita! Il mio capitò a metà degli anni sessanta quando, appena adolescente, il buon Carlo Della Vida mi volle raccattapalle per la troupe di Jack Kramer in arrivo al palazzo dello sport di viale Tiziano. Tra tutti quei fenomeni ce n’era uno mancino dai capelli rossicci e veloce come un razzo che al suo turno di servizio, mi diceva “ball please”. Non so se sorridesse o se fossero i tratti del suo viso a dargli una garbata aria bucolica. Sta di fatto che, timido ed emozionato, porgevo l’occorrente per giocare e di rimando una voce serafica mi investiva con un amabile “ thank you “!