di Nicola Corradi
Ci si avvia lentamente verso l’ultima parte di stagione, attraversando una porzione asiatica che si dirama tra sporadici tornei densi di talento e più probabili tabelloni popolati da sconosciuti nomi in brutale lotta tra loro. Con la fine del quarto Slam stagionale, è opportuno riassumere le vicissitudini che si sono conseguite, da Gennaio ad oggi, negli appuntamenti Major, provando a trovare una logica chiave di lettura ad una stagione inizialmente non prevista.
- Agli Australian Open, nonostante Nadal occupi la prima posizione mondiale, è chiaro a tutti che il favorito sia Roger Federer. Nei primi giorni il caldo svolge il ruolo di protagonista, e la prima scossa si ha nel momento in cui Chung, giovanissimo coreano allora estraneo ai più, in tre agevoli set si prende lo scalpo di Djokovic. Il serbo vive una fase particolarmente acuta della parabola discendente che sembra non avere fine, ormai sulla via del mediatico oblio dopo quasi due anni di insuccessi. Chung si mostra con prepotenza al grande pubblico, grazie a due gambe estremamente possenti ed un rovescio solido e preciso. Niente di frizzante, l’unione prestampata tra la fabbrica americana e la lucidità asiatica. Chung si trova, poi, a disputare la semifinale con Federer, dalla quale si ritira a causa di vesciche ai piedi. Lo svizzero raggiunge la finale, mentre un’orda di ignoranti commentatori da salotto attaccano il coreano reo di aver scelto la via del ritiro per non subire l’umiliazione che il Vate gli avrebbe inflitto. Dall’altra parte del tabellone, Rafa Nadal esce dal campo senza concludere il quarto di finale che lo vede opposto a Cilic, sottomesso dai soliti dolori al ginocchio che ne accompagnano fedelmente la carriera dagli anni della giovinezza. Il croato arriva così nuovamente in finale, dove, nonostante occasioni di vittoria macroscopiche, cede nuovamente al terrore nei confronti della vittoria lasciando a Roger la conquista del ventesimo Slam. L’elvetico piange nell’intervista post partita, ricordando forse, con malcelata malinconia, le lacrime che, sullo stesso campo, gli sgorgarono dagli occhi nove anni prima.
- Complice l’assenza di tanti tra i nomi noti, il Roland Garros finisce per non essere altro che l’evidente dimostrazione dell’egemonia di Rafa Nadal sulla terra rossa. Un percorso netto che gli consente la vittoria dell’undicesimo titolo. Lo spagnolo, a Parigi, ha probabilmente perso il conto dei successi ottenuti, e mentre in tanti provano a conquistare quello che tra tutti è stato per lo più il Major maledetto (Sampras e McEnroe ne sono un esempio), lui accumula trofei in un singolare catasto dal valore di un centinaio di milioni di dollari. Parigi vede la propria rivelazione in Marco Cecchinato, che non avendo mai vinto una partita in un evento del genere arriva fino alle semifinali, concedendosi il lusso di estromettere le prime avvisaglie d’uscita dal tunnel dell’oblio di Novak Djokovic. Il popolo transalpino, abituato ad una schiera di interpreti che fanno dell’irrazionalità il loro dogma imprescindibile, si innamora subito della meteora italica, capace di lusingare la platea presente con smorzate di dritto che dolcemente si addormentano dopo aver scavalcato la rete. Ci prova Thiem, raggiungendo la prima finale Slam in carriera, a spodestare il purpureo demiurgo, ma nulla, il suo pur ottimo rovescio, può contro le parabole maiorchine.
- Wimbledon è casa di Roger Federer. La benevola sorte lo posiziona da un lato di tabellone dove, secondo previsioni, dovrebbe con agio raggiungere le fasi conclusive. Nonostante i tifosi del Vate inneggino il complotto, l’elvetico procede a gonfie vele fino al terzo set del quarto di finale contro Kevin Anderson, dove un match point a favore sembra segnare la conclusione di una nuova sfida risultata agevole. Da lì, Roger sembra progressivamente appassire, mentre il servizio di Anderson aumenta in precisione e potenza. Gli ace si rincorrono uno dopo l’altro e l’incontro si decide al quinto, dove un break causato da troppi errori non forzati si traduce nell’estromissione del favorito. Ogni certezza è persa, e se Nadal, dopo la vittoria maestosa contro Del Potro, cede senza colpe a Djokovic in semifinale, Isner ed Anderson sono vittima della scellerata regola che non vuole il tiebreak nel parziale decisivo. Sono necessarie oltre sei ore di gioco per consentire al sudafricano di raggiungere la finale ed affrontare, privo di forze, il serbo, finito quasi per caso ad impugnare il trofeo. Nessuno ci crede, lui meno di tutti, ma è solo l’inizio di una nuova dittatura.
- Il dominio di Djokovic prosegue anche a New York, dove un grande dejavù porta la mente di molti a ricordare le vicissitudini che segnarono il circuito maschile tra il 2015 ed il 2016. Federer, in difficoltà a Cincinnati, esce di scena con Millman, subendo una nuova dolorosa battuta d’arresto. Nadal e Djokovic partono con i favori del pronostico dalla loro parte, essendosi spartiti i due 1000 di preparazione ed avendo mostrato, tra tutti, il gioco più convincente. Entrambi si trovano di fronte ad un percorso che rende il tabellone più affine a quello di un torneo 500, complice la precoce uscita di tutti i principali concorrenti (Alexander Zverev si dimostra incapace di gestire cinque set cedendo alla catartica bellezza del cerbiatto Kohlshreiber), ed il destino pare voler farli scontrare nell’atto conclusivo, fino a quando Nadal, sopravvissuto per miracolo divino all’estenuante lotta con Thiem, è costretto al ritiro per problemi fisici contro Del Potro. Nole passeggia con agio estremo sugli impotenti avversari (è Sandgreen quello che più lo mette in difficoltà), portandosi a casa il quattordicesimo Slam fischiettando per il campo con virtuosismi in fa diesis. Doppio successo consecutivo per Djokovic, che fino a pochi mesi prima arrancava per i campi come salice piangente licenziando ogni tassello del suo staff.
Una stagione nuovamente dominata dai soliti tre nomi onnipresenti. A Gennaio si ipotizzava, come da anni a questa parte, un possibile ricambio generazionale. Le generazioni sì passano, ma la costante del più grande terzetto della storia monopolizza la scena, soffocando sadicamente le aspirazioni dei giovani virgulti e annebbiando la mente dello sporadico tifoso di tennis. Che il 2019 porti con sé aria nuova. Rinnovo l’augurio pur consapevole della realtà dei fatti.