L’eredità dell’umile fenomeno

di Massimo D’Adamo

A dispetto di quanto visto in campo, lo Slam Australiano ha dato il meglio nella cerimonia di chiusura, riflesso nelle lacrime di un campione che al suo ventesimo slam tradisce ancora l’incontenible emozione. E’ bastato un lampo e i lineamenti balbettanti di Roger Federer hanno fatto il giro di quel mondo tennistico troppo spesso ritratto tra dollari, lustrini e poca umanità. Scopriamo invece che ha un cuore e per dirlo a tutti, la Rod Laver Arena di Melbourne ha liberato immagini di genuina commozione condivise da quel popolo sterminato di fans che ormai piange e gioisce in perfetta simbiosi con un beniamino inossidabile unto di benefica eternità.
Ne ha fatta di strada l’adolescente che da junior smaniava alla ricerca di se stesso prima ancora che del suo tennis! Un cammino laborioso, vissuto in abbrivio da scalpitante puledro e proseguito da meticoloso studente voglioso di apprendere. Tanto scrupoloso da giungere, formichella formichella, al fuoriclasse che dall’emisfero sud ha finito per allietare qualche miliardo di persone con le sue funamboliche giocate. Una magia dei particolari certamente condivisa, in giovane età, con qualche oscuro maestro di base che a dispetto dell’anonimato meriterebbe il plauso del mondo tennistico. Forse quel Peter Carter, allenatore australiano, morto in un incidente automobilistico o chissà, prima ancora Adolf Kacovsky, insegnante del circolo Old Boys di Basilea, che in tema di tecnica doveva saperla lunga.
Studiando da campione, Roger Federer deve aver fatto tutto senza sbagliare una virgola privilegiando una gestualità senza dispersioni con la quale da tempo disegna geometrie di gioco assolutamente inedite. Ogni coach transitato per la sua corte darebbe l’anima pur di rivendicare la paternità di qualcosa rifilata nella sua evoluzione, ma temo che non ci sia grande spazio per reclamare meriti troppo marcati: da Lundgren a Roche, da Higueras ad Annacone da Edberg a Ljubicic, sicuramente lo svizzero ha colto da ognuno utili chicche anche se c’è da giurare che alla fine abbia attinto alla farina del suo sacco. Darei più peso, semmai, a quella curiosità morbosa rivolta a dettagli, grandi e piccoli, elaborati con cocciutaggine ripetitiva pur di approdare al fresco vincitore di Melbourne; uno sportivo dalle vedute lungimiranti, assai diverso dai modelli stereotipati che affollano il circuito. Ho sempre pensato che anche un giocatore di buon talento possa incontrare grandi difficoltà a dare il meglio di sé senza un controllo pignolo della preparazione. Federer deve aver fatto sua la teoria già dalla prima adolescenza, cosciente che pur avendo le stimmate del campione non poteva ancora considerarsi tale. L’ascesa al top non era un fatto scontato, ma andava costruita palla su palla, regalandosi ogni volta qualcosa che lo rendesse migliore rispetto all’atleta del giorno prima. E a trentasei anni suonati, quella ricerca pruriginosa non è venuta meno spronandolo a sfrugugliare ancora tra combinazioni nuove di zecca coltivate a suon di indagini tecnico-tattiche condotte su se stesso. Avrebbe potuto accontentarsi di molto meno e vincere comunque qualche slam se il fuoco sacro dell’umile fenomeno non l’avesse spinto a spiegare le vele e dirigere verso una difficile perfezione. Chi guarda a Federer come al frutto del solo talento incorre in un grosso errore. La vera forza di quello che senza troppi giri di parole è il più forte tennista di ogni tempo, attiene soprattutto alla volontà di scendere nei meandri del suo tennis risalendone ogni volta con risposte motorie che sanno di mistero. Soluzioni sfoderate inseguendo il massimo risultato col minimo sforzo secondo un’alchimia che nulla invidia all’arte. Dall’estro di un pittore esce colore, da quello di un musico, armonie. Dal Federer tennista, esce un’ idea lirica del gioco dovuta certamente al suo talento e alla cura maniacale delle minuzie, mai accantonata in vent’anni di carriera. Al punto da essere l’unico nella storia racchettara in grado di coniugare estetica e rendimento, due cose che raramente proseguono a braccetto. Talvolta è andato oltre e la caparbietà di fare del tennis uno spettacolo etereo ha finito col procurare qualche dispiacere. Fosse stato più corporeo, gli slam nel palmares sarebbero oggi venticinque, forse più. Ma da quell’orecchio non ha sentito ragione e alla banalità del gioco ha preferito strizzare l’occhio a soluzioni alate pilotate da fili invisibili: mentre il tennis prendeva strane forme lui inseguiva leggiadro i suoi aquiloni!
Qualcosa che ho capito meglio al torneo di Istanbul un freddo pomeriggio di marzo, dove in finale, il fenomeno, si era permesso il lusso di annullare a Pablo Cuevas un set point con una staffilata di rovescio planata appena appena su un coriandolo di riga. Alla fine ha vinto e in conferenza stampa quel sassolino mi prudeva nella scarpa. “….Scusa, Roger, “ esordivo senza perifrasi, “… ma quel rovescio poteva anche andare male e complicare la faccenda”. Senza esitare sfoderava uno dei suoi sorrisini un pò sornioni: “…vero!”, replicava dunque a braccia conserte,, “… dirò di più” aggiungeva subito dopo occhi alla platea, “…potevo anche impattarla male e spedirla in tribuna come qualche volta accade”. Poi tornando su di me chiudeva con fare angelico: “…ma era la cosa giusta e sentivo che andava fatta”. Parole semplici, rivelatrici di altre verità circa la visione stellare del suo sport: coraggio innanzitutto, ma anche quel pizzico di follia che mette il turbo ai fuoriclasse lì dove altri arrivano col fiato grosso!
Lui è così! E tra le tante rivoluzioni, ha riconosciuto al timing la piena sacralità facendo del controbalzo un colpo blasonato ben lontano da quello tanto amato dai pigri di una volta! In un’impennata di sapienza ha raccolto anche la paura dei ribattitori scrollando la risposta dall’antica sudditanza al servizio, rimaneggiando a tal punto la posizione in campo da farne un colpo fulminante, pericoloso quanto il suo potente contraltare. Una ricerca estesa a tutti i comparti del suo gioco, mirata a un tennis eccelso e privo di frontiere che l’Unesco potrebbe elevare a patrimonio dell’umanità come il Colosseo e i le Piramidi egizie.
…. il futuro
Ciò che Federer lascerà ai posteri, dunque, sarà un tennis riconosciuto come l’amalgama perfetto tra il tocco un po’ vintage dei tempi andati e la potenza cristallina di quelli in essere. Sopravviveranno soltanto i più curiosi, quelli propensi a rimettersi in gioco e a brigare tra difetti e virtù di un tennis sempre più vincente. Una concezione lontanissima dal randellamento nudo e crudo che in questi anni ha fatto vittime a profusione tra talenti poco coraggiosi, sicuramente assai dotati ma troppo inclini a prostituire alla mediocrità estro e fantasia.
Quel diritto vincente sul 4/2 al terzo della finale appena entrata nella storia, è qualcosa che va al di là di ogni ragionevole immaginazione. Un altolocato controbalzo finito felicemente lungolinea che riassume in sé anni di applicazione e non è certo frutto del caso. Oltre che una risposta motoria di raffinata fattura, quel colpo esprime una visione del gioco assai più alta di chi nutre ambizioni da prof senza spingersi fuori da una comoda zona di confort.
Il lascito di Federer, dunque, sarà quello di un gioco meno dispendioso, ricco di soluzioni e sicuramente più adatto al palato dei tanti aficionados.
Sulle simbologie, Oswald Spengler, ha scritto ‘Il Tramonto dell’Occidente’. Secondo il filosofo tedesco, un cambiamento storico lascia il segno se è latore di messaggi politici e culturali di rilievo. Inseguendo i suoi aquiloni, Roger Federer, lascerà di questo sport una visione celestiale, meno brutale e in controtendenza rispetto a quella ancora troppo in voga. Agli addetti ai lavori il compito di raccoglierla e farne un uso illuminato uscendo da un insegnamento sparagnino e povero di fantasia. A loro l’onere di far tesoro della preziosa eredità e proiettare il nuovo che avanza verso stili di gioco meno arruffati e di più ampie vedute. Senza dire di quelle lacrime gioiose appena arrivate dalla remota Australia: a ben guardarle sono forse il lascito più importante di un campione ormai più unico che raro. E in uno slancio di ottimismo voglio sperare che quei goccioloni partiti da così lontano giungano su giovani e genitori di tutto il mondo come il migliore dei suoi insegnamenti.
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