di Roberto D’Ingiullo
“L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di due passi, l’utopia si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. E allora a cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”.
Un’utopia. Per Nadal questo è stato Federer. L’utopia letteraria, metaforica, dipinta dalla penna di Eduardo Galleano. L’ombra di Federer lo ha spinto ai propri limiti e forse anche oltre.
Si è messo in testa di raggiungere Federer. Anche perchè non poteva fare altro. Se devi saltare la trafila da junior perché vinci troppo facile, se a 15 anni conquisti il primo punto Atp, a 16 sei nei primi cento al mondo e a 18 vinci il Roland Garros tra i grandi, puoi chiederti quale sia il nome della stella che ti sta accompagnando. Ma di sicuro sai che il tuo viaggio deve portarti in cima e non centimetro più dietro.
Non puoi accontentarti, se c’è un trono, devi prendertelo. Magari puoi giudicare il tuo rivale il più grande di sempre, ma intanto lo devi battere.
Qualcuno ha scritto un libro sulla solitudine dei numeri primi. E nessun numero è asociale, solitario come il numero uno. E come ci diventi numero uno quando ti trovi davanti quello che è unto dagli Dei? Di arrendersi non se ne parla e allora sarà anche un’utopia. Ma nel frattempo ti metti in cammino.
Per essere un ottimo giocatore da primi dieci del mondo, a Nadal sarebbe bastato essere quel lottatore spartano che volava da una parte all’altra del campo che si era ammirato sin dall’esordio. Per vincere un Roland Garros avrebbe soltanto dovuto affinare il rovescio bimane per renderlo meno vulnerabile. Per diventare il numero due era sufficiente avanzare leggermente la posizione in campo per diventare competitivo anche sul cemento. Per battere Roger sull’erba avrebbe dovuto imparare a giocare anche di volo, aggredire nello scambio e rispondere come non aveva mai fatto prima.
E Rafa lo ha fatto. E anche qualcosa di più. Gli hanno rimproverato di tutto ma la sua grave colpa è stata quella di lesa maestà. Già perché prima del suo avvento, Federer non solo vinceva ma veniva da chiedersi come potesse perdere. Era troppo più elegante, armonico, regale nel suo incedere per pensare che fosse come gli altri. Ti domandavi: “Ma se lui gioca a tennis, gli altri cialtroni con una racchetta in mano…esattamente cosa fanno?”. E a volte ce lo domandiamo ancora. Roger non aveva neppure bisogno di fare un piano tattico perché in ogni frangente era superiore all’avversario. Che si trattasse di fare braccio di ferro da fondocampo, di giocare di fino, di palleggiare cambiando ritmo, non c’era comunque partita. Poi è arrivato Nadal e per Federer inizialmente ha avuto l’effetto della criptonite. Ha scoperto che c’era un preciso frangente del gioco in cui non era superiore. Se lo scambio finiva nella diagonale dritto arrotato iberico contro rovescio slice rossocrociato, lo scambio finiva sempre in direzione Maiorca. Come un pugile che picchia sulla ferita del rivale, Nadal ha capitalizzato quel vantaggio e lo ha trasformato in un miss match mentale.
Federer lo ha detto: “Sembra sempre che contro di me Rafa giochi meglio del suo solito”. Verissimo ma la lode all’avversario era al contempo un’autocritica perché Roger invece nonnon riusciva a dare il.meglio contro l’unico avversario con cui aveva effettivamente bisogno di giocare al 100%.
Eppure ancora oggi Federer è un’utopia. Anzi, è divenuto ancora più leggendario da quando ha svelato il suo lato umano. Rafa lo ha detronizzato dalla posizione numero uno del ranking, lo ha ridicolizzato a Parigi, lo ha spodestato persino nel suo giardino di Wimbledon. Per molto meno, un sovrano abituato a comandare avrebbe fatto perdere le proprie tracce.
Nel tennis succede così. La regola è questa: se hai dominato e trovi qualcuno che ti batte, lascia la scena quando la tua fiamma si è illanguidita ma ancora non spenta. Borg si è ritirato a 26 anni dopo aver perso due partite contro McEnroe. “Ormai tutto il mondo sa che McEnroe è più forte di me”. Non aveva voglia di rimettersi in discussione lo svedese e forse non ne aveva pure la forza. Si dice che la vita faccia sempre un po’ male e Borg la vita l’aveva conosciuta quando era già uomo. Prima era stato anestetizzato dalla megalomania di essere il migliore al mondo, trasformandosi in un cyborg in campo.
Anche Sampras capì che si stava avvicinando al tramonto quando un giovane astro, proprio Federer, lo aveva superato incantando per la prima volta Wimbledon nel 2001.
Roger no. Quando qualcuno ha rovesciato la sua aura di perfezione, anziché scappare ha mostrato il suo lato più umano. Per la prima volta a Parigi nel 2008. Finale di Roland Garros che sembra una mattanza: Nadal è scatenato e azzanna un Roger suonato come un pugile. 6-1,6-3,6-0 e tutto il pubblico che si aspetta o, forse spera, che Federer dia la colpa a un infortunio, a un acciacco, a un incidente. E invece lo svizzero inizia il discorso durante la premiazione con un disarmante “Sì, sono proprio io”. Insomma,nessun trucco, nessun inganno. Anche il più forte di sempre può essere massacrato sul centrale di Parigi senza scuse e senza alibi.
E poi un mese dopo con Rafa che lo batte nella partite del secolo nel tempio del tennis e Roger che piange ma riconosce la legittimità del successo dell’avversario. E ancora a Melbourne nel 2009 con le lacrime inarrestabili dello svizzero che capitola nuovamente dopo 5 ore di battaglia.
Già, ma dopo tutti questi colpi da ko, il risultato quale è stato? Che Federer si è ricostruito e ha sopperito alla perdita di brillantezza dell’età con una maggiore maturità nel leggere le partite trovando gli antidoti al gioco di Rafa. Ci ha messo quasi dieci anni a capirlo che per vincere contro Nadal, Federer doveva estremizzare il suo gioco ma alla fine ci è riuscito. Poi, per semplificarsi le cose, ha preferito non affrontarlo più sulla terra.
Ma soprattutto, proprio le sconfitte, hanno reso Federer più amato. Per lo stile si era meritato l’ammirazione, per la sua capacità di mostrare le proprie debolezze e reagire si è conquistato la devozione. Sarebbe troppo aspirare a essere come lui con una racchetta in mano, ma ci immedesimiamo nella semplicità di quelle lacrime dopo una sconfitta simili a quelle di un bambino a cui hanno tolto un giocattolo e ci piacerebbe avere la stessa voglia di continuare a migliorare per ripartire, lo stesso entusiasmo nel vedere in una sconfitta il sorgere di una nuova sfida.
Lo ha detto Roger: “Rafa mi ha reso un uomo migliore”. Già, non un giocatore più completo ma un uomo migliore. Perché solo conoscendo la sconfitta, la delusione, la rabbia si può crescere.
Tutto vero, ma che dire di Rafa? E’ talmente ingombrante Federer che in questo pezzo che era nato come celebrativo dello spagnolo stiamo decantando la grandezza dello svizzero. Chissà come ci si sente a sapere che il tifo è sempre per l’altro. Ad essere accusati a prescindere di un imprecisato reato. Hanno detto che il suo stile di gioco era noioso, spesso è stato accostato all’alone del doping senza alcuna evidenza, hanno profetizzato per lui una carriera breve perché con quel gioco ci si brucia in fretta. Ma anche queste accuse sono figlie dell’ammirazione. Sì, certo fraintesa e manipolata ma pur sempre derivate dall’ammirazione. In realtà, per capire chi è veramente Nadal bisogna leggere nelle righe di un’affermazione dello zio: “Credo che nessun tennista abbia vinto così tante partite giocando male”. Ecco, Nadal ha un dono unico. Diluire i momenti della partita in cui le cose non vanno come vorrebbe
Non si tratta solo di essere grandi agonisti ma di avere qualcosa di speciale. Nessuno sportivo va in campo senza voler vincere (o almeno si spera). Il problema è che è difficile riuscire a rimanere on fire per ore. Punto dopo punto. Nadal lo dice: “Gioco ogni punto come se da quello dipendesse la mia vita”. E non soltanto lo dice. Lo fa veramente.
La verità è che Nadal ha avuto bisogno di Federer e che Federer ha avuto bisogno di Nadal. Qualcuno potrebbe pensare che entrambi avrebbero vinto molto di più se non avessero avuto la concorrenza del rivale. Ma in realtà non sarebbero rimasti competitivi vedendosi scorrere le varie next generation se non avessero avuto lo stimolo di migliorarsi ancora per battere il rivale. E noi possiamo discutere di loro e rievocare Coppi e Bartali. E faremo la stessa fine di chi a settant’anni di distanza continua a chiedersi chi è che ha passato la borraccia. Un’utopia mettere un punto fermo alla discussione. Ma intanto accompagnandoli, abbiamo camminato anche noi.